Stazioni di servizio

Articolo di Stefano Bucci sulle architetture del boom che ispirano anche i pittori, come le stazioni di servizio. Da Hopper a Ruscha ai progetti dei Bbpr: un patrimonio (oggi) a rischio di distruzione e omologazione.
Route 66 – Biagiolini Ronconi 2012
Per ognuno di noi, purché munito di regolare patente di guida, c’è in fondo una stazione di servizio da ricordare, con rabbia oppure con affetto: sosta fisiologica di lunghi viaggi giovanili verso spiagge estive; fondamentale break di sussistenza da spendere (almeno nella versione più recente, quella dell’Autogrill) tra una Rustichella, un Camogli e un Gran Provolo; luogo d’incontro per amori clandestini, baci rubati, sesso usa e getta. Oltre, naturalmente, che per la funzione primaria di ogni pompa di benzina: il rifornimento di carburante (super, normale, diesel e un tempo persino miscela).
Questo viaggio ideale dopo il tempo delle prime taniche e lattine (a Palazzolo Milanese c’è anche un museo, oggi purtroppo chiuso, quello di Guido Fisogni, come una bella collezione esiste a Istanbul, quella di Rahmi Koc, e al Museo della Scienza di Milano) prende forma, in Italia, tra il primo e il secondo Novecento: «Quando le pompe di benzina a colonna fanno la loro comparsa, sistemate un po’ ovunque alla bell’e meglio per rifornire le poche macchine esistenti sul nostro territorio» (34.138 nel 1920 che nel 1960 sarebbero comunque già diventate 2.449.123). Anche se, tra il 1907 e il 1913, il sogno americano (e chi altro?) già esibiva le «look-alike gasoline station», di fatto i primi modelli di rifornimento di carburante drive-in (con tanto di distributore d’acqua più o meno calda): la Standard Oil di Seattle, l’American Gasoline di St.Louis, la Central Oil di Flint.
In un incredibile trionfo (coloratissimo) di cerchi, triangoli, cani e cavalli alati, gatti a nove code, conchiglie (un presunto Mister Shell-Tony Curtis avrebbe fatto innamorare addirittura Zucchero Kandinsky-Marilyn Monroe in A qualcuno piace caldo) che dalla semplice insegna-simbolo di una multinazionale diventa parte fondamentale «dell’estetica della strada e elemento portante di una società emergente». Qualcosa, dunque, da ricordare davvero, con rabbia oppure con affetto.
Oltre che un patrimonio di architettura diffusa, urbana o di periferia, quello delle stazioni di servizio è un tesoro (da preservare, da ritrovare) anche sentimentale. Come ben racconta Susanna Caccia in un volume appena pubblicato (Tutela e restauro delle stazioni di servizio, Franco Angeli) dove accanto ai temi prettamente architettonici e tecnici trovano spazio continui riferimenti all’immaginario artistico-cinematografico.
Hopper
D’altra parte, per celebrare la diffusione di questi piccoli, grandi paradisi di modernità (che in Italia si svilupperanno a partire dagli anni Venti di pari passo con la crescita della rete autostradale di prima generazione «grazie alle iniziative coordinate dall’ingegner Piero Puricelli»), quale migliore «mezzo» della citazione? Passando dai dipinti e dalle fotografie di Ed Ruscha (Twentysix Gasoline Stations, 1963) alle Pop-serie di Allan d’Arcangelo (Us Highway n.1, 1963) fino ai più recenti lavori del fotografo tedesco Julian Faulhaber (Tankstelle, 2008) dove si intrecciano felicemente stazioni di servizio e grandi magazzini sempre e comunque visti con occhio poeticamente irreale. Spaziando da un classico come Gas Station di Hopper (1940, abitualmente conservata al Metropolitan di New York dove sta per tornare dopo un trionfale tour parigino) alle recenti variazioni sul tema firmate da Alessandro Busci (Temporale, 1999), ora esposte con i lavori di Omar Galliani al Maga di Gallarate.
Allan d’Arcangelo
E naturalmente il cinema, a cominciare dall’Inhumaine (1923) di Marcel l’Herbier dove compare una «stèle-station» disegnata da Mallet-Stevens, lo stesso che nel 1927 «avrebbe concepito per il Salon d’automne una stazione di pura luce in cui la città, la strada, la notte, la macchina si compongono in un’estetica di rappresentazione del progresso scientifico». In un elenco che mette insieme il dinner con pompa di benzina gestito da un’insoddisfatta Lana Turner nel Postino suona sempre due volte (1946) e il documentario (prodotto dalla Gulf Oil) How to run a fillin station (1953) di Robert Altman fino a The Fountainhead (1949) ispirato alla vita di Frank Lloyd Wright (con Gary Cooper che progetta una modernissima gas station). E poi Giungla d’asfalto (1950) di John Houston o Il grido (1957) di Antonioni a fare da contraltare (con una serie di comparsate meno forti nei capolavori di maestri come Fellini, Risi, Pietrangeli e Olmi) alla pensilina fatiscente di Gomorra (2008) di Matteo Garrone.
All’inizio si tratterà, spiega ancora Susanna Caccia, «di una rete formata di micro-architetture soprattutto in ferro e vetro prodotte da società come la Pancaldi di Modena o la Nuova Pignone». E se l’evoluzione «dalla semplice colonnina al piccolo chiosco di benzina» avverrà da noi con notevole lentezza rispetto agli Stati Uniti, fin dall’inizio le stazioni made in Italy sembreranno immuni da un certo «piccolo» regionalismo. E dunque nessuna citazione di colonial style come in California, nessun cedimento ai pergolati simil-campagnoli francesi e nemmeno alle capanne in paglia o in marabout di certe colonie. Già allora, in qualche modo, prenderà corpo così una sorta di italian style più rigoroso. In fondo più moderno che classicamente bello (come il distributore Standard a Teie vicino a Holmestrand, demolito e poi ricostruito al Norsk Folkemuseum di Oslo nel 1993).
Quello che conta sarà, alla fine, sulle autostrade del Vecchio come su quelle del Nuovo Continente, rendere in qualche modo più piacevole la sosta. Non più soltanto benzina, non più solo necessità, ma in qualche modo piacere. A cominciare dalle forme «che perdono il senso del monumentale, pesante, dello statico» per rispondere «al gusto del pratico, dell’effimero, del veloce» (in un certo modo una versione aggiornata delle visioni di Sant’Elia). Su questo tema (ispirato alla volontà di creare un modello di sviluppo finalmente piacevole per «la new-car friendly city come l’aveva pensata Le Corbusier nei suoi progetti per una ville contemporaine») finiranno per trovarsi a confronto maestri come Norman Bel Geddes (che nel 1934 definirà un programma in punti per la Socony-Vacuum Oil Company), Raymond Loewy (suo il prototipo di service-center per l’area di Manhattan), Mies van der Rohe, Frank Lloyd Wright, Arne Jacobsen e tra gli italiani Giuseppe Terragni e Giovanni Muzio.
Ma che sia a pagoda oppure «ad ala d’uccello», la stazione di servizio (entrata di prepotenza nella storia ufficiale dell’architettura con la presenza di un distributore della Standard Oil nella mostra organizzata da Philip Johnson al Moma di New York nel 1932) rientra ormai in un patrimonio a rischio, quantomeno di un’omologazione senza stile se non di una distruzione intesa come (necessario) sintomo di modernità. La cartina che conclude la ricerca di Susanna Caccia offre così una mappa d’Italia con dieci luoghi in pericolo, dieci stazioni di servizio a rischio abbattimento (dall’ex-Total di Piazzale Accursio a Milano all’ex-Agip di Lecce, tra Porta Napoli e l’Obelisco). Un patrimonio così tanto in pericolo che una delle dieci (la ex-Shell di Aulla) è stata demolita in corso di pubblicazione. Che fare allora? Magari si potrebbe tentare un’operazione di recupero: come quella (per altro isolata) della stazione di Trieste del gruppo Bbpr (1953) diventata nel 2008 (con un intervento dello studio Semeraro e Tamaro Architetti associati) un contenitore di cultura premiato anche dalla Triennale di Milano. Oppure si può sempre continuare a sognare, con rabbia oppure con affetto. O, magari, stavolta con un pizzico di malinconia in più.

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