Peter Halley

In occasione della mostra «Carla Accardi/Peter Halley» alla galleria Massimo Minini di Brescia fino al 19 Gennaio, Gianluigi Colin traccia un ritratto di Peter Halley. 
Come si riconosce a New York un artista di successo? «Dal numero di finestre dello studio». Parola di Peter Halley. E lui, nello studio a Chelsea, di finestre ne ha davvero tante. Halley è uno degli artisti americani più influenti, colti e sicuramente una delle voci più conosciute e amate nel mondo dell’arte, teorico del Neo-Geo, il movimento che ha riscoperto la poetica della geometria. «Lavoro più in Europa che in America», sottolinea, mentre osserva i suoi assistenti completare alcune parti dei dipinti.
A suo modo è anche un artista atipico: saggista e critico (ha scritto numerosi testi teorici, in Italia pubblicati da Demetrio Paparoni nelle edizioni «Tema Celeste»), per anni docente a Yale, è un raffinato intellettuale prima ancora d’essere artista consacrato per la sua pittura geometrica, densa di un’astrazione dai colori accesi e dalla forte connotazione concettuale. «Già, in Europa mi sento in buona compagnia. La gente è più informata, più sensibile. È una vecchia storia: molti artisti americani sono più famosi in Europa che qui». E non a caso è appena stata inaugurata a Brescia, alla galleria di Massimo Minini, una sua mostra in dialogo con le opere di Carla Accardi: un raffinato gioco di rimandi e specchiamenti tra due maestri dell’arte astratta nel nome della forza incantata dei segni. 
Prima della sua partenza per l’Italia, l’atelier appare come un laboratorio senza pareti in cui il colore si fonde con la luce delle vetrate su Manhattan. Dovunque, barattoli colorati che creano un mosaico luminescente, quasi fosse un’installazione pop. Sui tavoli, appunti e piccoli bozzetti, sui muri, appoggiate in fila come in una catena di montaggio, delle tele dove alcuni giovani assistenti sono impegnati a passare il colore con rulli da imbianchino. Al centro dello studio, una scultura inaspettata: un lanciatore di giavellotto, copia di una grande statua greca, acquistata al Metropolitan.
«Amo la classicità, mi piaceva e l’ho voluta qui con me. Mi ricorda da dove veniamo». L’occhio di Peter Halley non si distrae mai, controlla costantemente quello che accade. Parla con lentezza, usando parole precise, ogni tanto viene chiamato da una assistente che lascia la postazione dei numerosi computer: una email urgente, una spedizione da fare. 
Se davvero, come ricorda ironicamente Halley, il successo di un artista si misura dalla grandezza delle vetrate, il suo studio è la certificazione del riconoscimento internazionale di un artista con il volto di perenne ragazzo, nato a New York nel ’53 da una famiglia di intellettuali e che difende, come fosse una insopprimibile ossessione, un’idea, sempre la stessa, da trent’anni: l’astrazione come metafora della vita, la pittura come racconto del presente, l’arte come chiave sociologica per descrivere l’isolamento dell’essere umano.
I quadri di Peter Halley sono dei dipinti geometrici, coloratissimi, rassicuranti, con supporti materici diversi, tanto da dare, anche grazie allo spessore dei telai, un senso di tridimensionalità. Ma dietro queste forme, apparentemente casuali, in cui si intravedono delle linee, c’è un messaggio preciso: «Sono figurazioni metaforiche. Raccontano il nostro essere confinati, isolati. Sono le prigioni in cui viviamo, gli spazi dove siamo costantemente separati gli uni dagli altri». 
«Il linguaggio è forte», continua Halley. «La mia iconografia è iniziata con le prigioni. La prigione era un quadrato con le sbarre. Poi ho pensato fosse interessante togliere le sbarre: le chiamai celle. Celle o prigioni quadrate: come quando siamo in un appartamento, in auto, in ascensore, davanti a un computer. C’è, nel mio lavoro, la grande influenza della tecnologia. Negli spazi che abitiamo siamo separati fisicamente e questi spazi sono interconnessi da sentieri tecnologici che ho deciso di chiamare condutture. All’inizio erano sotterranee, come la metropolitana. Poi le feci proliferare ovunque». 
Non è un caso che Peter Halley sia un newyorkese doc. Guardando la mappa della sua Manhattan, si ritrova la geometria cartesiana che regola le sue opere. Lo stile di vita della Grande Mela, poi, ha fatto il resto. Lui replica con una battuta: «Be’, basta dire che sono cresciuto tra la 48a strada e la Terza Avenue! Sono un realista». Già, davvero Halley rifiuta l’idea di essere considerato come astrattista tout court. Al contrario, difende le sue creazioni come fortemente ancorate alla realtà. Le sue sono vere mappe mentali, segni esistenziali, in qualche modo, poetiche geometrie dell’anima. 
«Ho sempre creduto nell’importanza di rappresentare qualcosa che va al di là dell’essere umano. Vogliamo chiamarla anima? Sono cattolico. Negli anni Settanta ho cominciato a credere che l’arte dei Nativi americani facesse entrare in contatto con la natura e grazie a essa anche a una più consapevole spiritualità. Credo nell’essere sociale in connessione con gli altri e non nell’uomo chiuso in se stesso, nell’esclusiva dimensione psicologica o intimista». 
Peter Halley si ferma. Vuole precisare: «Un artista non dovrebbe mai dire che il suo lavoro è spirituale. Semmai lo dovrebbero dire gli altri. Sicuramente la mia arte è espressione della mia visione: vacillo tra alienazione ed esperienze estatiche, anche da un punto di vista psicologico».
Da come parla, Peter Halley appare un guru. E in qualche modo lo è: voce bassa, si esprime con la dolcezza e la sicurezza di chi ha trovato la sua strada e la segue con determinazione. Sembra voler sottolineare il suo ruolo di teorico oltre a quello di pittore: si alza e ritorna con uno dei suoi ultimi saggi, mostra dei passaggi, sottolinea alcuni concetti guida sul suo lavoro. D’altronde, tra i suoi riferimenti culturali ci sono le teorie di Guy Debord sulla Société du spectacle e di Jean Baudrillard, a cui Halley ha legato alcune sue riflessioni teoriche. Ma anche di Guattari, Deleuze, Foucault. Peter Halley usa le sue tele come trattati filosofici analizzando la nostra vita quotidiana. Una inaspettata iconografia della realtà nella quale s’intravedono i flussi, le costrizioni, i vincoli dove la nostra esistenza si consuma: una specie di infografica della nostra vita, vissuta inspazi angusti, percorsi accecanti, microchip invadenti, segni e forme che diventano metafore di una vita vissuta nella prigione postmoderna della contemporaneità. 
«Nella vita predomina la configurazione degli spazi, anche se non se ne parla mai. Viviamo in compartimenti stagni. E poi la luce usata nei miei quadri vuole essere tecnologica, fluorescente e non naturale. La stessa che vediamo in un supermercato. Alcuni definiscono il mio lavoro volgare per l’eccesso del colore. Ma è solo il racconto della realtà». 
«Cos’è cambiato nei linguaggi dell’arte? Negli anni Sessanta, la pittura era fuori moda. Non era rilevante, al contrario dei video e della fotografia che entravano in un nuovo mercato. Poi la gente ha cominciato a muoversi in altre direzioni. Francamente sono sorpreso che la pittura esista ancora. Ma penso anche che la pittura non andrà mai fuori moda». Peter Halley continua: «La fotografia non è un’espressione tattile. Invece, bisogna riflettere sul mercato: molti pensano che la pittura sia il linguaggio più funzionale dentro il sistema dell’arte».
Peter Halley si muove nello studio, poi si affaccia alla grande vetrata: «New York non è più il centro dell’arte mondiale. È unica, offre una grande energia, ma ci sono altre realtà, Los Angeles, per esempio. Ma soprattutto l’Europa: Berlino, Londra. Agli studenti dico sempre: andate per un anno in Europa. Essere artisti a New York non è più come negli anni Ottanta. Ora nessuno vive più a Manhattan, gli artisti si sono spostati a Brooklyn. È molto silenziosa e tranquilla. Manhattan è diventata troppo cara. È di lusso, consumistica, come Parigi. Anche per le gallerie, vale lo stesso discorso. Qui ho cominciato a scrivere, a pubblicare e poi a dipingere. Le mie prime opere erano influenzate dal Minimalismo. Ma tutti erano interessati all’Espressionismo. Così, molti artisti aprirono piccole gallerie. Avevo molti amici e così cercai di aiutarli: amici come Jeff Koons, Richard Prince. Nel 1985 feci la prima esposizione. Ma poi tutto è cambiato radicalmente». 
Nel volto di Peter Halley cala un velo: «Quella stagione sembra finita. Ora tutto appare condizionato dal potere del denaro. Molti artisti ne diventano vittime. Mossi solo dalla fama e dal successo». Peter Halley l’intellettuale, Peter Halley il sociologo, Peter Halley il pittore delle mappe mentali. Peter Halley, come la cometa che porta il suo nome, con una luce negli occhi sorridendo conclude: «Non è la mia storia».

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