Jesus’ son – Denis Johnson

Grandissima raccolta di racconti di Denis Johnson, magistralmente tradotta da Silvia Pareschi. Bar e motel squallidi, periferie cupe e anonime animate da personaggi alterati da alcol e droghe, ma comunque sempre umani. Veramente bellissimo.

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INCIDENTE DURANTE L’AUTOSTOP

[…]Lungo il corridoio avanzava la moglie. Era magnifica, ardente. Non sapeva ancora che suo marito era morto. Noi invece si. Ecco cosa le dava tanto potere su di noi. Il medico l’ha portata in una stanza con una scrivania in fondo al corridoio, e da sotto la porta chiusa si è sprigionata una lastra di fulgore, come se, grazie a qualche stupefacente processo, lì dentro stessero incenerendo dei diamanti. Che polmoni! Strillava come avrebbe potuto strillare un’aquila. Che meraviglia essere vivo per poterla sentire! Da allora non ho più smesso di cercare quella sensazione.

“Sto bene”: mi sorprendo di aver pronunciato quelle parole. Ma ho sempre avuto la tendenza a mentire ai dottori, come se la salute consistesse solo nella capacità di ingannarli.

Qualche anno dopo, una volta che mi avevano ricoverato nel reparto di disintossicazione del Seattle General Hospital, ho seguito lo stesso approccio.

– Sente voci e rumori insoliti?- mi ha chiesto il medico.

-Aiutaci, oddio, che dolore,- urlavano le scatole del cotone.

-Non proprio,- ho detto.

-Non proprio,- ha ripetuto il medico. -E cosa vuol dire?

-Non sono pronto a parlarne,- ho risposto. Un uccello giallo mi ha svolazzato vicino alla faccia, e i miei muscoli si sono contratti. Ora mi dibattevo con un pesce. Quando ho strizzato gli occhi, lacrime bollenti mi sono esplose fuori dalle orbite. Quando li ho aperti, ero girato a pancia in giù.

-Come mai la camera è diventata così bianca?- ho chiesto.

Una bella infermiera mi stava sfiorando la pelle. -Queste sono vitamine,- ha detto mentre infilava l’ago.

Stava piovendo. Felci gigantesche pendevano su di noi. La foresta digradava giù per una collina. Sentivo un torrente correre tra le rocce. E voi, gente ridicola, voi aspettate che io vi aiuti.

 

FUORI SU CAUZIONE

Jack Hotel beveva accanto a me, riflesso nello specchio.

C’erano altri identici a noi, e questo ci consolava.

Cosa non darei, certe volte, per un altro incontro come quello, noi due seduti in un bar alle nove del mattino a raccontarci bugie, dimentichi di Dio.

Anche Hotel aveva litigato con la sua ragazza. Aveva vagato per le strade come me. Abbiamo bevuto di pari passo finché non abbiamo finiti soldi.

Sapevo di un condominio dove arrivavano ancora gli assegni della pensione di un inquilino morto. Li rubavo regolarmente da sei mesi, sempre con trepidazione, sempre aspettando un paio di giorni dopo il loro arrivo, sempre pensando che avrei trovato una maniera onesta di guadagnare qualche dollaro, sempre considerandomi una persona perbene che non avrebbe dovuto fare certe cose, sempre esitando perché temevo che stavolta mi avrebbero beccato.

[…] Con quei soldi abbiamo comprato dell’eroina e ce la siamo divisa in parti uguali.

Poi lui è andato a cercare la sua ragazza, e io sono andato a cercare la mia, sapendo che quando c’era di mezzo la droga capitolava.

Ma ero in cattive condizioni, ubriaco e reduce da una notte insonne. Appena la roba mi è entrata in circolo, ho perso i sensi. Sono passate due ore senza che me ne accorgessi.

Credevo di avere appena chiuso gli occhi, ma quando li ho riaperti la mia ragazza e un vicino messicano stavano lavorando su di me, facendo tutto il possibile per riportarmi indietro. Il messicano stava dicendo: – eccolo che si sveglia.

Abitavamo in un appartamentino sudicio. Quando capito che era rimasto svenuto a lungo e avevo rischiapassate due ore senza che me ne accorgessi. Credevo di aver appena chiuso gli occhi, ma quando gli ho riaperti la mia ragazza è un vicino messicano stavano lavorando su di me, facendo tutto il possibile per riportarmi indietro. Il messicana stava dicendo: eccolo che si sveglia.

Abitavamo in un appartamentino sudicio. Quando ho capito che ero rimasto svenuto a lungo e avevo rischiato di andarmene per sempre, mi è sembrato che la nostra casetta luccicasse come bigiotteria. Ero contentissimo di non essere morto. Di solito, se proprio mi veniva da riflettere sul senso della vita, al massimo arrivavo a considerarmi la vittima di uno scherzo. Nessun contatto con l’orlo del mistero, nessun istante in cui qualcuno di noi – be’, parlo solo per me, immagino – si sentiva i polmoni pieni di luce o roba del genere. Eppure quella notte ho vissuto un momento di gloria. Ero sicuro di essere qui, in questo mondo, perché non potevo tollerare nessun altro posto.

Quanto a Hotel, che era nelle mie stesse identiche condizioni e aveva dietro la stessa quantità di eroina, ma non avevo dovuto a spartirla con la sua ragazza perché quel giorno non era riuscito a trovarla: ha raggiunto una pensione in fondo a Iowa Avenue ed è andato anche lui in overdose. E’ entrato in un sonno profondo e all’inizio la gente che era lì l’ha preso per morto.

Ogni tanto quelli che erano con lui, tutti i nostri amici, gli controllavano il respiro mettendogli uno specchietto sotto le narici e verificando che si appannasse. Ma dopo un po’ si sono dimenticati di lui, e Hotel ha smesso di respirare senza che nessuno se ne accorgesse. Si è spento. È morto.

Io sono ancora vivo.

 

DUNDUN

Dundon ha torturato Jack Hotel sul lago vicino a Denver. L’ha fatto per ottenere informazioni su un oggetto rubato, uno stereo che apparteneva la sua ragazza, o forse a sua sorella. In seguito, Dundun ha quasi ammazzato un uomo con un aggeggio per cambiare le gomme in una strada di Austin, in Texas, e un giorno dovrà rispondere anche di questo, ma adesso si trova, penso, nella prigione di Stato del Colorado. Mi credete se vi dico che in fondo al cuore era buono? La sua mano sinistra non sapeva cosa faceva la destra. È solo che certi importanti collegamenti erano bruciati. Se vi aprissi la testa e vi passassi una saldatrice e sul cervello, potreste diventare così anche voi.

 

MATRIMONIO SPORCO

Mi piaceva sedermi davanti e viaggiare su quelli veloci per tutto il giorno, mi piaceva quando sfioravano gli edifici a nord del Loop e soprattutto mi piaceva quando, un po’ più a nord, gli edifici sparivano in quello squallore da bombardamento dove la gente (dietro le finestre vedevi qualcuno che si portava alla bocca una cucchiaiata di minestra in una cucina sudicia e spoglia, o dodici bambini sdraiati pancia a terra a guardare la televisione, ma un istante dopo erano spariti, spazzati via dal cartellone di un film con una donna che strizzava l’occhio e si toccava abilmente il labbro superiore con la punta della lingua, a sua volta cancellata da una – sbam, il rumore e il buio ti piombavano intorno alla testa – galleria) viveva per davvero.

Avevo venticinque o ventisei anni, qualcosa del genere. I polpastrelli gialli di nicotina. E una ragazza che aspettava un bambino.

Prendere il treno costava cinquanta centesimi, o forse novanta, o un dollaro. Non me lo ricordo proprio.

Davanti al posto dove facevano gli aborti i dimostranti ci spruzzavano addosso l’acqua santa e si rigiravano i rosari intorno alle dita.

[…] Seduta in diagonale rispetto me c’era una dolce ragazzina nera di circa sedici anni, strafatta di ero. Non riusciva a tenere su la testa. Non riusciva a restare fuori dai suoi sogni. Lo sapeva: merda, potevamo pure bere lacrime di cane. Niente aveva importanza, tranne che eravamo vivi.

– Non ho mai assaggiato il miele nero, – le ho detto.

Lei si è grattata il naso e ha chiuso gli occhi, tuffando la faccia nel paradiso.

L’ho chiamata: – Ehi.

– Nero. Io non sono nera, – ha detto. – Sono gialla. Non darmi della nera.

– Vorrei un po’ di quello che hai tu.

– Finita, ragazzo. Finita, finita, finita -. Rideva come Dio. Ma non gliene ho fatto una colpa.

– Dici che se ne può trovare dell’altra?

– Quanta ne vuoi? Ce l’hai un deca?

– Forse. Certo.

– Andiamo, ti ci porto, – ha detto. – Ti porto al Savoy -.

E dopo altre due fermate l’ho seguita giù dal treno in strada. Intorno ai falò accesi nei bidoni della spazzatura c’era gente che borbottava e cantava, quel genere di cosa. Lampioni e semafori avevano protezione di rete metallica.

Alcuni credono che dovunque guardi vedi solo te stesso. Episodi come questo mi fanno pensare che forse è vero.

Il Savoy Hotel era un postaccio. La sua realtà svaniva man mano che si innalzava sopra First Avenue, sicché i piani superiori sgocciolavano via nello spazio. Su per le scale si trascinavano dei mostri. Nel seminterrato c’era un bar che occupava tre lati di un rettangolo, grande come una piscina olimpionica, e un palcoscenico sormontato da un pesante sipario dorato che non si muoveva mai. Tutti sapevano cosa fare. La gente pagava con le banconote fatte strappando l’angolo di un biglietto da venti e appiccicandolo su un biglietto da uno. C’era un uomo con un cappello a cilindro nero, un casco di folti capelli biondi e una barba bionda a punta. Sembrava che volesse stare lì. Come faceva a sapere cosa fare? Le belle donne che scorgevo con la coda dell’occhio sparivano appena mi giravo a guardarle. Inverno fuori. Notte di pomeriggio. Buio, buio all’happy hour. Non conoscevo le regole. Non sapevo cosa fare. L’ultima volta che ero entrato in un Savoy era stato a Omaha. Non mi ci avvicinavo da più di un anno, ma mi sentivo già male. Quando tossivo, vedevo le lucciole.

Tranne il sipario, tutto quanto là sotto era rosso. Sembra un film di qualcosa che stava succedendo davvero. Papponi neri impellicciati. Le donne erano spazi vuoti e scintillanti dentro cui fluttuavano fotografie di ragazze tristi. – Prendo i tuoi soldi e vado sopra, – mi ha detto qualcuno.

[…] Michelle mi ha lasciato definitivamente per uno di nome John Smith, o forse dovrei dire che durante uno dei nostri periodi di separazione si è messa con uno e poi dopo ha avuto un colpo di sfortuna ed è morta? Ad ogni modo, non è mai tornata da me.

[…] Michelle è andata a Kansas City con lui, e una notte, mentre lui era fuori, ha preso un sacco di pillole e gli ha lasciato un biglietto sul cuscino, sicura che l’avrebbe trovato l’avrebbe salvata. Ma quando è tornato era così ubriaco che ha appoggiato la guancia sul biglietto e si è addormentato. Il mattino dopo, quando si è svegliato, la mia bella Michelle era fredda e morta.

Era una donna, una traditrice e un’assassina. Attirava maschi e femmine. Ma io ero l’unico che avrebbe mai potuto amarla.

[…]Il giorno del mio ventiquattresimo compleanno, mentre litigavamo, lei è uscita dalla cucina ed è tornata con una pistola e mi ha sparato cinque volte da un capo all’altro del tavolo. Eppure mi ha mancato. Non voleva la mia vita. Voleva di più. Voleva mangiarmi il cuore e smarrirsi nel deserto con quello che aveva fatto, voleva cadere in ginocchio e partorire così, voleva ferirmi come solo un bambino può essere ferito dalla madre.

Lo so che si discute se sia giusto oppure no, se il bambino si arriva in questa o quella fase del suo sviluppo nel grembo. Ma non era questo il punto. Non era quello che facevano gli avvocati. Non era quello che facevano i medici o quello che faceva la donna. Era quello che la madre e il padre facevano insieme.

 

HAPPY HOUR

La giornata stava finendo in una gloriosa luce infuocata. Le navi nello stretto sembravano sagome di carta che il sole stava per risucchiare.

Ho bevuto due doppi e subito mi è sembrato di essere sempre stato morto e di essermi finalmente svegliato.

Ero al Pig Alley. Si affacciava direttamente sul porto, costruito sull’acqua sopra un pontile traballante, con i pavimenti di compensato ricoperto di moquette e il banco di formica. Il fumo di sigaretta aveva un aspetto sovrannaturale. Il sole scendeva attraverso il tetto di nuvole, infiammava il mare e riempiva la grande finestra panoramica di luce fusa, così i nostri traffici e i nostri sogni si svolgevano dentro una nebbia radiosa. Chi entrava nei bar di First Avenue abbandonava il proprio corpo. Da quel momento erano visibili solo i demoni che vivevano in noi. Qui venivano riunite le anime che si erano ferite a vicenda. Lo stupratore incontrava la sua vittima, il figlio rifiutato ritrovava sua madre. Ma niente si poteva guarire, lo specchio era un coltello che divideva ogni cosa da se stessa, lacrime di falsa amicizia gocciolavano sul banco. E cosa mi farai adesso? Con cosa, di preciso, intendi spaventarmi?

James Simon Kunen – Fragole e sangue.

America 1968, il giovane diciannovenne Kunen, studente della Columbia University, si ritrova catapultato all’improvviso nella protesta studentesca e decide di tenere un diario sull’occupazione dell’università. Idealista, alterna riflessioni importanti e coraggiose a divertenti digressioni personali, in un’America attraversata da nuovi conflitti come la guerra del Vietnam, gli omicidi di Bob Kennedy e Martin Luther King, la crisi dei democratici che aprono alla contestazione giovanile e ai movimenti sociali.

Edito da SUR con la traduzione di Anna Rusconi e Carla Palmieri, il “diario di uno studente rivoluzionario” risulta ancora attualissimo.

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Dalla bella intruduzione di Bruno Cartosio

[…]Kunen è un radical dubbioso e arrabbiato perché “siamo in grado di vedere una serie di cose contro cui è necessario lottare, e lottiamo. Abbiamo lottato, stiamo lottando, lotteremo”.

[…]Nel diario sembra mantenere un’apparente distacco, sempre ironico e autoironico. “Non sono un leader…i leader da soli non possono assaltare e occupare edifici. Per certe azioni occorrono i grandi numeri. Io sono un numero. Quella che segue è la cronaca di una singola unità rivoluzionaria”.

Effettivamente la sua lettura dei fatti è personale, tanti giudizi in piccolo. In fondo quando sono visti nel loro farsi dal di dentro i grandi eventi non appaiono nella loro grandezza ma sempre solo come successione di piccole esperienze personali. Ci sono i principi, però, che costituiscono la spina dorsale della personalità e la bussola su cui orientare sia i comportamenti, sia i giudizi in grande.

Alcuni estratti

[…]Ho appena sentito una pessima pubblicità delle giacche alla Nehru. Appena trovi uno stile di vita buono, o anche solo una cosa che ti piace, quelli se la pigliano e la vendono senza avere la minima idea di quanto valga, svalutandola completamente. Guardi all’Oriente,  e ti ritrovi con una giacca da guru indiano di Gimbels.

 

[…]Non mi piacciono il Texas, quelli che vanno allo zoo per fare gli alternativi, le nevicatine che si riducono subito in poltiglia, le giornate corte d’inverno, il termine “consumatori”, i martelli pneumatici proprio sotto la finestra e i soldatini.

E il razzismo, la povertà e la guerra. Contro questi ultimi tre sto cercando di fare qualcosa.

 

[…]I bambini si picchiano, ma arrivati a sedici anni, per quanto adolescenti irresponsabili, capiscono che la forza non serve a dimostrare un bel niente. I ragazzi più grandi difficilmente ricorrono alla forza. Solo quando lo fanno i loro paesi. Perciò sono proprio le nazioni a comportarsi in modo incredibilmente infantile. Le guerre sono un’idiozia. Un’assurdità. Eppure sono reali, presenti, una costante: continuano a esistere. Perché non la piantano? Perché le nazioni non ci danno un taglio, punto e basta? Noi non vogliamo guerre.

 

[…]Non è singolare che nessuno finisca mai in galera per aver scatenato una guerra, tantomeno per averla invocata? Invece le galere sono piene di gente che vuole la pace. Non uccidere è da criminali. Basta chiedere che ti lascino in pace, e ti spediscono difilato in galera. Esercitare il diritto di vivere significa violare la legge. Lo trovo singolare, davvero.

 

[…]Ovviamente non ho nessuna voglia di andare a combattere in Vietnam, ma non ho nemmeno voglia di combattere contro la leva, contro la legge o contro alcunché. Sono un civile di diciannove anni, e sono stanco di combattere.

Tuttavia prima o poi potrei cominciare a farlo per davvero, per non doverlo fare mai più.

Annie Proulx – Distanza ravvicinata. Storie del Wyoming/1.

Prima raccolta di racconti delle “Storie del Wyoming” di Annie Proulx. Edita da Minimum fax con la traduzione di Alessandra Sarchi. Una narrativa incredibilmente ricca, tra realismo e punte di poesia, in paesaggi enormi e feroci.

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Il confine erboso del mondo.

La regione appariva come uno spazio deserto, grandi piante di artemisia, erba da conigli, cielo scompigliato, stormi di uccellini come mazzi di carte lanciati in aria, e una pista appena visibile che andava verso il muro rosso dell’orizzonte. Tombe senza nome, legname di case crollate e di recinti bruciati in vecchi falò. Non molto altro a parte le condizioni atmosferiche e la distanza, la distanza punteggiata di tanto in tanto da radi cancelli di ranch e, a nord, l’incessante borbottio e dal sole riflesso dei semiarticolati in corsa lungo l’interstatale.

 

Una costa solitaria.

Hai mai visto una casa a bruciare nel cuore della notte, in un posto lontano da tutto in mezzo alle pianure? Null’altro che buio totale e i tuoi fari che ritagliano un piccolo cuneo di luce, per quel che vedi potrebbe essere in mezzo all’oceano. E in quella spessa oscurità trema una corona di fiamme grande come il tuo pollice. Puoi guidare per un’ora tenendola in vista fino a che non si consuma  o ti consumi tu, fino a che non abbandoni la strada per chiudere gli occhi o guardare in alto il cielo bucherellato da fori di pallottole. E magari pensi alla gente nella casa che brucia, li immagini mentre cercano di arrivare alle scale, ma perlopiù te ne freghi. Sono troppo lontani, come tutto, del resto.

 

Brokeback Mountain.

Ennis del Mar si sveglia prima delle cinque, col vento che scuote il caravan, sibilando attraverso la porta di alluminio e gli infissi dei finestrini. Le camice appese a un chiodo sono leggermente smosse dallo spiffero d’aria. Si alza, grattandosi la grigia risalita di pelo pubblico intorno all’ombelico, si trascina al fornello del gas, versa del caffè avanzato in un pentolino di ceramica sbreccata; la fiamma lo  avvolge di blu. Apre il rubinetto e piscia dentro il lavandino, s’infila camicia e jeans, gli stivali consumati, di cui preme i tacchi contro il pavimento per calzarli meglio. Il vento picchia su tutta la lunghezza curva del caravan, e sotto il suo rombo cupo avverte lo sfregare di sassolini e sabbia. Sull’autostrada potrebbe mettersi male con il bilico per il trasporto dei cavalli. Deve preparare tutto e filarsela della fattoria quel mattino stesso. Il ranch è di nuovo in vendita e si sono liberati anche dell’ultimo dei cavalli, hanno saldato tutti i conti del giorno prima, col padrone che diceva: “Datele a quegli squali dell’agenzia immobiliare, io non ne voglio più sapere”,  e consegnava a Ennis le chiavi. Può darsi che debba restare con la figlia sposata fino a che non troverà un altro lavoro, eppure è pervaso da un senso di piacere perché ha sognato Jack Twist. Il caffè riscaldato sta bollendo ma riesce a spegnerlo prima che coli fuori, lo versa in una tazza macchiata e soffia sul liquido nero, lasciando che una scena del suo sogno gli scorra davanti agli occhi. Se non ci pensa troppo sopra potrebbe nutrirgli la giornata, riportandolo ai vecchi tempi, a quei tempi di gelo sulla montagna, quando erano padroni del mondo e niente sembrava sbagliato.  Il vento si abbatte sul caravan come fosse un carico di spazzatura che straborda da un camioncino, poi si acquieta, cessa, lascia che per un po’ ci sia silenzio.

[…]Quello che Jack ricordava e rimpiangeva con un’intensità che non poteva contenere né capire era il momento in cui, in quella lontana estate a Brokeback Mountain, Ennis gli era arrivato da dietro e lo aveva attirato a sé, quell’abbraccio silenzioso che aveva riempito una fame condivisa e asessuata. Erano rimasti in quella posizione per un lungo momento, davanti al fuoco, con le fiamme che lanciavano scintille ardenti, l’ombra dei loro corpi che formava contro la parete di roccia un’unica colonna. I minuti erano scanditi dal cipollone nella tasca di Ennis, e dal crepitio dei rametti di legno che diventavano carbone. Le stelle pulsavano attraverso gli strati ondeggianti di calore sopra il fuoco. Il respiro di Ennis era lento e tranquillo, canticchiava a bocca chiusa, dondolava un poco nella luce del falò e Jack si addossò a quel battito regolare del cuore, a quelle vibrazioni sonore simili a una corrente elettrica,  e in piedi fu preso da un sonno che non era sonno, ma qualcos’altro, una specie di trance soporifera, fino a quando Ennis, ripescando dall’infanzia, dei giorni prima che sua madre morisse, un ritornello arrugginito ma che poteva funzionare, disse: “Ora di andare a letto, cowboy. Devo partire. Coraggio, stai dormendo in piedi come un cavallo”. E diede a Jack una scrollatina, una spinta e se ne andò nell’ oscurità. Jack sentì il tintinnio degli speroni mentre saliva a cavallo e le parole “ci vediamo domani”, lo sbuffo fremente del cavallo, un rumore di zoccoli sui ciottoli. In seguito, quell’abbraccio assonnato si era solidificato nella sua memoria come l’unico momento di autentica, incantata felicità nelle loro esistenze separate e difficili. Nulla lo offuscò, nemmeno la consapevolezza che allora Ennis non l’aveva abbracciato guardandolo in faccia perché non voleva vedere e sentire che si trattava di Jack. E forse, pensò, non erano mai andati oltre quello. Pazienza, pazienza.

Yukio Mishima – Una stanza chiusa a chiave

Una rilettura di un piccolo gioiello e di un grande scrittore, con la traduzione di Lydia Origlia.

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I corridoi erano meandri inestricabili. Non esisteva banca più enorme. Come gli sarebbe piaciuto lavorare in un edificio assolutamente inumano come quello! Si sentiva ovunque respinto da enormi colonne di marmo. Non v’era traccia alcuna di vischiosità. Kazuo detestava gli edifici dall’aspetto accogliente. Bastava premere la guancia sul marmo per raffreddarla e appiattirla. Avrebbe voluto vivere in una tomba. Una tomba così vitale e meravigliosa. Come tutti i cimiteri, quell’archetipo di banca freddo e buio esprimeva l’orgoglio cosciente di dominare l’esistenza umana. La perfezione della vita consiste nell’imitare la tomba. Come nelle Mille e una notte, fratello e sorella di madri diverse si rinchiudono in una tomba per gustare il piacere… Una camera chiusa a chiave… L’idea lo fece sussultare di paura e di voluttà.

Sandra Cisneros – La casa di Mango Street

La storia di Esperanza Cordero in un barrio di chicanos a Chicago, raccontata attraverso il suo sguardo adolescenziale denso di emozioni e desideri. Una fusione tra l’espressività della prosa e soprattutto l’intensità della poesia…un gioiello. Edito da La Nuova Frontiera con la traduzione di Riccardo Duranti.

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[…] Ma i capelli di mia madre, ah, i capelli di mia madre sembrano coccardine, caramelle con il buco, ricciolosi e carini perché li ha tenuti nei bigodini tutto il giorno, dolci da odorare quando stai in braccio a lei e ti senti al sicuro, odorano di quel bel profumo caldo del pane da infornare, di quel buon profumo di quando ti fa spazio nel suo letto e dalla sua parte le lenzuola sono ancora calde della sua pelle e ti riaddormenti accanto a lei, mentre fuori cade la pioggia e Papà se la russa. Il russare, la pioggia e i capelli della Mamma che profumano come il pane.

 

[…] La gente che vive in collina dorme così vicina alle stelle che si dimentica di quelli di noi che dormono troppo attaccati alla terra. Non guarda giù per niente se non per rallegrarsi di vivere sulla collina. Non ha niente a che spartire con la spazzatura della settimana scorsa o con la paura dei sorci. Arriva la notte e niente li sveglia, se non il vento.

Un giorno avrò una casa tutta mia, ma non mi scorderò mica chi sono e da dove vengo. Vagabondi di passaggio mi chiederanno: Posso entrare? E io offrirò loro ospitalità in soffitta, chiedendogli di fermarsi pure, perché lo so benissimo cosa si prova a essere senza casa.

Certi giorni, dopo cena, io e gli ospiti ce ne staremo seduti davanti al fuoco. Le assi del pavimento circoleranno di sopra. La soffitta si lamenta.

Sorci? Mi chiederanno.

Vagabondi, dirò io, e sarò felice.

 

Mica un appartamento. Di sicuro non un appartamento sul retro. Non la casa di un uomo. Non voglio fare la mantenuta. Ma una casa tutta mia. Con il portico, un cuscino su cui riposare e le mie preziose petunie color porpora. I miei libri e i miei racconti. Il mio paio di scarpe pronte accanto al letto. Nessuno contro cui agitare il bastone. Nessuno a cui stare dietro e rimettere a posto le sue cose.

Solo una casa silenziosa come la neve, uno spazio in cui rifugiarmi, pulito come la carta prima di scriverci una poesia.

 

[…] Un giorno farò in bagagli con tutti miei libri e le mie carte. Un giorno dirò addio a Mango Street. Sono troppo forte perché mi possa trattenere qui per sempre. Sono troppo forte perché mi possa trattenere qui per sempre. Un giorno me ne andrò.

Vicini e amici diranno: che ne è stato di quella Esperanza? Che fine ha fatto con tutti quei libri e quelle carte? Perché se ne è andata tanto lontano?

Non si renderanno conto che me ne sono andata per tornare. Per quelli che mi sono lasciata dietro. Per quelli che non ce la fanno scappare.

Ragazzo coraggioso – William Saroyan

Bellissima raccolta di racconti di William Saroyan, “Ragazzo coraggioso” mostra tutto il genio, l’energia e l’impeto di questo grande scrittore. Edito da “Marcos y Marcos” con la traduzione di Claudia Tarolo e Marco Zapparoli.

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SETTANTAMILA ASSIRI

Non credo nelle razze. Non credo nei governi. Abbraccio con un solo sguardo tutta la vita, milioni di esseri nello stesso tempo, sulla terra intera. I bambini che non hanno ancora imparato a parlare sono l’unica razza del mondo, la razza umana: tutto il resto è illusorio, la cosiddetta civiltà, l’odio, la paura, il desiderio di potenza… Ma i bambini sono bambini. E quel modo che hanno di piangere, ecco la fratellanza tra gli uomini, il pianto di un bambino. Crescendo apprendiamo un linguaggio, e vediamo che il mondo attraverso il linguaggio che abbiamo imparato. Non lo percepiamo attraverso tutti linguaggi, o attraverso l’assenza di linguaggio, attraverso il silenzio; ci isoliamo nel linguaggio che conosciamo. Da queste parti ci isoliamo nell’inglese, o nell’americano, come preferisce chiamarlo Mencken. L’eternità stessa, con parole nostre. Se c’è qualcosa che vorrei, è parlare un linguaggio più universale. Il cuore dell’uomo, la sua essenza non scritta, eterna e comune a tutte le razze.

 

TRA I PERDUTI

Il destino delle nazioni non mi interessa, la storia mi annoia. Cosa intendono poi per storia, quelli che la scrivono, e ci credono? Com’è potuto accadere che l’uomo, creatura semplice e amabile, sia stato sfruttato per compilare documenti mostruosi? Com’è potuto accadere che la sua solitudine sia stata violata, la sua devozione degenerata in furia spaventosa di morte e distruzione? Non credo nel commercio. Macchinari, calcolatori, automobili, locomotive, aeroplani, eh sì, anche la bicicletta – tutte assurdità. Trasporti, spostamenti; ma dove vanno davvero, le persone? Usciamo mai da noi stessi? Spaziare con la mente per tutta la vita, non esiste viaggio più stimolante. E finisce solo con la morte.

Soltanto l’uomo mi interessa. Amo la vita, e mi inchino davanti alla morte. Non la temo, perché è puramente fisica…

Piuttosto, detesto la violenza e odio profondamente chi la pratica e la diffonde. L’offesa al dito mignolo di un essere umano è di gran lunga più devastante e orribile della sua morte naturale. E quando centinaia di uomini sono feriti a morte in guerra sono travolto da un dolore che sconfina nella follia. Mi sento rabbioso e impotente. Le mie uniche armi sono le parole. Sono più potenti delle macchine da guerra, ma mi dispero perché le mie forze non bastano a neutralizzare l’impulso distruttivo che i propagandisti inducono negli uomini. Farò propaganda anch’io: in questo racconto voglio restituire all’uomo dolcezza e dignità. Restituire l’uomo a se stesso. Ricondurlo dalla massa indistinta al proprio corpo, alla propria mente individuale. Risollevarlo dall’incubo della storia al quieto sogno della propria anima, unica cronaca possibile. Se stesso, deve essere. Solo le bestie vanno in branco. Quando l’individuo si perde, per aggregarsi alla massa, Dio soffre fisicamente.

Alla mediocrità mi oppongo. Amo un onesto idiota, non posso amare un genio disonesto. Per tutta la vita ho riso di regole, tradizioni. L’uomo è una creazione troppo bella, le regole non fanno per lui. Ogni vita è contraddizione, verità, miracolo; persino la truffa è interessante. Non sono un filosofo e non credo nella filosofia; la stessa parola è sospetta. Difendo il diritto alla contraddizione. Ho appena detto che disprezzo tutte le macchine, invece adoro la macchina per scrivere.

 

QUELLA VIGNA NELLA MIA VALLATA

Che malefica sequenza, prima un uomo, poi un altro, prima un pensiero di morte, poi un altro; il tempo che scorre, e il Pacifico che annega le ore. Giorni trascorsi con un essere vivente, di sesso femminile, nel sole, al mare, sotto gli alberi, e tante tante parole.

La marea del paradiso, semmai ce ne occupassimo, batte ogni giorno alla porta della nostra vita, e noi lì a passeggiare verso la costa, aggrappati al nostro monotono sospiro; le nostre amate onde portano il fluido del silenzio, e noi lì ad ascoltare.

Nel 1918 arrivò il jazz. Era sempre esistito, ma nel 1918 esplose. Sarebbe sbagliato biasimare la guerra per questo. Un drappello di pesciolini che guizzano in un ruscello in secca è jazz. Un gruppo di giovani impiegate stanche che guizzano nella melma di una pozzanghera a New York è pure jazz. Non è il caso di soffermarsi sulla differenza, minima: i pesciolini vivono nell’acqua per natura, mentre le ragazze vi annegano per natura, e comunque accade quel che deve accadere. La prosperità, la prosperità prima di tutto.

L’evento più significativo della storia, se uno ci fa caso, non è la crocifissione di Gesù Cristo, ma la scoperta dell’America. La crocifissione ha portato al cristianesimo, che nella migliore delle ipotesi è stato di una qualche utilità, nella peggiore una forma di romanticismo per chi non è scrittore. La scoperta dell’America (il continente, dico), viceversa ha portato quel che ben sappiamo, Lincoln, Tom Sawyer, Hollywood, Hearst, la previdenza sociale. Innumerevoli sono le altre conseguenze, e se si deve scegliere fra un uomo e un continente, bisogna essere dei materialisti per non scegliere l’uomo; quanto è difficile essere cristiano pensando a quel che il cristianesimo si è trascinato dietro, quando la grande Chiesa cristiana è così riccha e grassa e ornamentale, con quel suo concetto ragionieristico di anima.

 

ASPIRINA

La morte fa parte dell’uomo, ma a volte la vita è così dura che ne evoca orribili ricordi, così, ecco i lamenti della notte.

L’angoscia. Tutti stanno male. Osservo la gente in metropolitana, vedo la malattia dovunque. Cerco un volto che non ne mostri tracce, lo cerco dappertutto, e non c’è. Questa ricerca rende il mio lavoro così affascinante. Dopo mesi di studio giungo a una conclusione su tutti noi, qui a Manhattan. La metropolitana è morte, tutti noi viaggiamo verso la morte. Niente catastrofi, niente terribili incidenti: la morte è lenta, e viene dalla vita. E’ di un fatto così notevole, che rido.

Ho vissuto in molte stanze, in molti quartieri della città, East Side, West Side, downtown, uptown, Harlem, il Bronx, Brooklyn, dappertutto. Ed è uguale dappertutto, la notte con i capelli gelati, fra pareti estranee, il sorriso della morte negli occhi.

Proprio non intendo tagliar fuori da questo mio scritto l’aspirina. Troppo importante, per tacerne. E’ il vero eroe di questa storia, in sei milioni, qui a New York, ce la prendiamo un giorno dopo l’altro. Tutti così malmessi, ne abbiamo bisogno. È un’evasione, questa aspirina. Così è la vita, così viviamo. Si prende l’aspirina e si tira avanti. Ammazza i malanni. Ti aiuta a dormire. Ti accompagna in metropolitana. È un sostituto del sole, fa buon sangue. Tiene lontani i ricordi, smorza i sospiri.

E non fa male al cuore. Così sostiene chi la produce. Assolutamente innocua, dicono. Magari è vero. Neanche la morte fa male al cuore. La morte è innocua quanto l’aspirina. Presto i becchini proporranno una pubblicità. Presto ci saranno annunci, sul “Saturday Evening Post”, pubblicità della morte. Tranquilli… morirete e i vostri sogni si avvereranno… del tutto innocua… raccomandata dai medici di tutto il mondo… e altri annunci del genere.

 

NELLA PACE TERRENA

Nebbia su San Francisco, cielo tormentato da foschia, sprazzi di luce abbagliante: sentirsi fuori dal tempo, sentirsi ridicoli e sgomenti; marciapiedi bagnati, la solita gente che cammina. In serate così, i traffici della notte fanno scintille; gli uomini hanno nel cuore un vago desiderio di morte, le puttane dispensano la morte necessaria per superare il cattivo tempo e restare in vita ancora un po’. Per andare a donne è il tempo ideale, gli alberghetti toccano con mano la prosperità. Da mezzanotte in poi è una danza, un rapido aprirsi e chiudersi di porte, corse su e giù per i corridoio, linguaggio osceno e meraviglioso legato all’atto più antico. Vecchi e ragazzi, affari a gonfie vele, le ragazze ci sono, eccome, passano da un servizio all’altro come un sacerdote amministra i sacramenti.

[…]Solo le puttane ne parlano con intelligenza. Capiscono come funziona, alle due del mattino sembrano le uniche persone a posto sulla terra. La precisione del loro linguaggio scabroso diventa nobile ed eloquente. La loro bellezza è universale. Vecchi e giovani salgono le scale degli alberghi più infimi. C’è di mezzo il denaro, ma soltanto perché siamo in una società capitalista, e lo scambio, anche in amore, si materializza così. Non si comprende il totale fallimento del capitalismo se non si osserva come le ragazze portano amore e morte a impiegati e contabili.

[…]Non sono volgari quelle puttane, va riconosciuto. Impossibile essere volgare, stando così vicina al segreto dell’uomo. Le ragazze finiscono di lavorare alle tre, senza regolamenti o sindacati. Dopo le tre vanno a letto. Questa volta per dormire. Dormono profondamente, riposano in pace nel tempo dell’uomo.

L’escursione – Joy Williams

Primo estratto per la “my selection”, il racconto “L’escursione” è tratto da “L’ospite d’onore”, la bellissima antologia di racconti scelti di Joy Williams, una delle maestre del racconto americano. Edizioni Black Coffee con la traduzione di Sara Reggiani e Leonardo Taiuti.

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Jenny ha lo sguardo teso e consapevole. Sa tutto, ma quanto è inaffidabile la sua conoscenza! Poiché ha solo il desiderio; ha sempre e solo desiderato questo, un amore inerte, liscio. Lui è freddo e la rassicura perché sa che non nasconde nulla. Lei entra nel letto e gli si rannicchia contro. Lui è il buio, lei è la luce. Non esistono sfumature nel suo mondo. Lui è un alto albero oscuro radicato nella notte, lei una fiamma che lo cerca, instabile, trasparente. Sono a Oaxaca. Se aprissero le persiane vedrebbero la città di pietra. La città è fatta di una roccia friabile verde chiaro, una roccia che sembra stata per secoli sotto la pioggia. Degli edifici colano ombre antropomorfe. Tutto è umido, quasi marcio. Nei mercati la frutta trasuda acqua; i fragili crani piumati degli uccelli sono mollicci al tocco.

L’uomo le ravviva i capelli dietro le orecchie. Non è così bella ora. Ha i tratti regolari, gli occhi chiusi.

“Sogna” dice lui. “E nel sogno fai l’amore con me”. Lei non è niente, non è da nessuna parte. C’è un che di sublime nel modo in cui lui adesso le stringe la gola. È un tocco così familiare. Lo desidera con tutta se stessa.

Ma lui le volta le spalle. Se ne va.

Jenny finge di dormire. Dorme per finta. La affascina il sonno, dove tutto accade come se fosse vero. Niente è nascosto. Sul bloc notes dell’Hotel Principal si legge:

Non è colpa di nessuno. Chiama il 228.

Siede a una piccola scrivania bevendo birra e leggendo. Legge un libro sugli Aztechi. La colpisce Tlazolteoti, la dea della passione e della fertilità, degli umori umani, della sessualità e della confessione. Jenny si siede con la schiena molto dritta. Il suo collo è lungo, solido, aggraziato. Ma le manca il fiato. L’aria terza e pura di lassù rende faticoso respirare. Anche l’uomo respira a fatica mentre risale i gradini scoscesi della città. Fuma troppo. La notte, quando rincasano dopo aver bevuto, tossisce piccole gocce di sangue sullo specchio del bagno. C’è sangue sulle piastrelle, nel lavello. Jenny serra le labbra quando lo sente sputare. Il respiro resta al di fuori di lei, espulso, inutile. Mentre l’uomo tossisce sta in piedi al suo fianco. Non c’è tanto sangue eppure sembra ovunque, a tarda notte, dopo che hanno bevuto, ovunque tranne che sui vestiti di lui. I suoi vestiti sono immacolati. Indossa sempre un abito grigio leggero e una camicia bianca. Ha due completi, entrambi grigi, e diverse camice, tutte bianche. È sempre uguale. Anche nella nudità, nella sua virilità, è liscio, compatto, chiuso. Comprensibile ai suoi occhi. Non offre alternative. Solo la morte della sua sterilità. La sua sessualità è fonte di vita, la sua maledizione la morte. Non ha altro da offrirle che il suo essere morente.

Lei si inumidisce le mani e le passa sullo specchio. Non riesce a immaginarselo da morto. È soltanto una bambina che vive la crisi di una donna. Vede la sua morte nel vuoto che lui le offre. E che la riempie. La invade. Gli stringe fra le mani capelli lunghi e folti. Si sente come fluttuare tra quei capelli, precipitare miracolosamente dal pericolo alla morte. Finalmente al sicuro.

“Jenny, Jenny, Jenny” chiama la madre.

“Voglio un bambino” dice Jenny. “Posso avere un bambino?”

“Ma certo,” risponde la madre “quando sarai grande e ti innamorerai”.

Sul bloc notes dell’Hotel Principal Jenny scriverà:

I presupposti di amore e autoconservazione sono inconciliabili.

 

[…]Fuori, il tramonto ha disperso la foschia pomeridiana. Il sole disegna ampie increspature liquide tra le nuvole. Sul finire del giorno, cigolando come un boma il cielo torna a riaccendersi. Jenny cammina per la strada tra i suoi genitori. Giunta al bordo del marciapiede, spicca un piccolo balzo nel vuoto, sorretta, per il momento, dalle loro mani.

Ora quel momento se n’è andato per sempre. Ed è di nuovo notte.

“Questa notte non finisce mai” dice l’uomo. Si sta radendo davanti al lavello. Il suo volto, fin sotto gli occhi, è una maschera di schiuma bianca. La bocca un buco nero nella maschera.

 

[…]Sono in vacanza. Stanno circumnavigando l’isola con altri turisti. Il padre ha programmato un’escursione al giorno. Ora stanno tornando a casa. Nessuno crea disordine. La gente è seduta tranquilla sulla barca o vi si aggira educatamente, radunando strumenti da pesca, avvolgendo cordame o aiutando i più piccoli a infilarsi il maglione.

Jenny vede l’uomo che attende sul pontile. Il motore della barca emette un alto gemito mentre il mezzo si gira, urtando piano contro i piloni rivestiti di tela. L’orribile macchina geme sempre più forte. Jenny gli si getta fra le braccia.

Lui la bacia come bacerebbe chiunque altro. Jenny al principio lo trova rude, sgarbato, poi però il suo tocco si fa più gentile, forte della consapevolezza che anche lei lo vuole.

La sua lingua scava più a fondo, più voracemente, nella bocca di lei. Il suo amore diventa autosufficiente. Finalmente, totale.

William S. Burroughs – Pasto nudo

Uno scrittore può scrivere soltanto di una cosa: di quello che c’è davanti ai suoi sensi al momento di scrivere… Sono uno strumento di registrazione… Non presumo di imporre una “storia”, una “trama”, una “continuità”… Finché riesco a registrare direttamentecerte aree del processo psichico posso avere funzioni limitate… Il mio obiettivo non è quello di intrattenere…

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Riattraversiamo Lake Charles e la distesa desolata di slot-machine, confine meridionale del Texas, sceriffi ammazza-negri ci lanciano appena un’occhiata e controllano i documenti della macchina. Quando attraversi il confine messicano qualcosa ti cade di dosso e di colpo il paesaggio ti colpisce allo stomaco perché non c’è niente tra te e lui, solo deserto, montagne e avvoltoi; macchioline vorticanti e altre così vicine che ti par di sentire le ali tagliare l’aria (un suono di guscio secco), e quando adocchiano qualcosa si riversano giù dal cielo azzurro, lo sconvolgente, sanguinante cielo azzurro del Messico, piombano giù in un imbuto nero… Abbiamo viaggiato tutta la notte, all’alba siamo arrivati in un posto caldo, pieno di foschia, di cani che abbaiavano e del suono di acqua che scorreva.

 

Carl andò a trovare Joselito in una grande camera linda piena di luce, con bagno privato e balcone di cemento. E niente di cui parlare in quella stanza fredda, con i giacinti che crescevano in un vaso giallo, il cielo azzurro porcellana e nuvole in continuo movimento, e guizzi di paura che si accendevano e spegnevano nei suoi occhi. Quando sorrideva, la paura volava via in frammenti di luce, si appostava enigmatica negli angoli alti e freschi della camera. E cosa potevo dire nel sentire la morte intorno a me e con le piccole immagine spezzate che affiorano nella mente prima del sonno?

 

Una guardia in uniforme di pelle umana, giacca nera di antilope con bottoni di denti gialli cariati, una camicia elastica di rame indiano brunito, pantaloni sportivi di adolescente-con-tintarella-da-sole-nordico, sandali di pianta del piede callosa di contadino malese, una sciarpa marrone cenere annodata e infilata nella camicia. (Il marrone cenere è simile al grigiosottola pelle bruna. Talvolta lo si trova nella razza mista, nei mulatti, la mistura non viene via e i colori si separano come olio sull’acqua…).

La Guardia è un figurino, dato che non ha niente da fare e spende tutta la paga per comprarsi bei vestiti; si cambia tre volte al giorno davanti a un enorme specchio che ingrandisce. Ha una bella faccia liscia e latina, con baffi simili a un tratto di penna, piccoli occhi neri, vuoti e avidi, occhi da insetto senza sogni.

Quando arrivo alla frontiera la Guardia esce di corsa dalla sua casita, con uno specchio dalla cornice di legno appesa al collo. Cerca di toglierselo… Non è mai successo prima che qualcuno sia arrivato fino alla frontiera. La Guardia si è ferita alla laringe con la cornice dello specchio nel tentativo di toglierlo… Ha perso la voce… Apre la bocca, dentro si vede la lingua saltellare di qua e di là. La giovane faccia inespressiva e liscia e la bocca aperta con la lingua che si muove sono incredibilmente spaventose. La Guardia alza la mano. L’intero corpo sussulta in negazione convulsa. Mi avvicino e sgancio la catena che sbarra la strada. Quella cade sul pietrisco con clangore metallico. Ci passo sopra. La Guardia se ne sta lì nella foschia e mi guarda mentre mi allontano. Poi rimettere la catena al suo posto, rientra nella casitae comincia a spuntarsi i baffi.

 

Appunti presi sotto l’effetto dello yagé:

Le immagini cadono lente e silenziose come neve… Serenità… Cadono tutte le difese… Ogni cosa è libera di entrare o uscire… La paura è semplicemente impossibile… Una bellissima sostanza azzurra penetra in me… Vedo un arcaico volto sorridente simile a una maschera dei Mari del Sud… Il volto è di un azzurro violetto screziato d’oro…

La stanza ha l’aspetto di un bordello levantino con pareti blu e lampade rosse guarnite di nappine… Sento che mi sto trasformando in una negra, il nero sta silenziosamente invadendo la mia carne… Convulsioni di lussuria… Le mie gambe si arrotondano, assumono una consistenza polinesiana… Ogni cosa si muove di una vita furtiva, fremente… La stanza è mediorientale, negra, dei Mari del Sud, di qualche località familiare che non riesco a localizzare… Lo yagé è un viaggio spazio-temporale… Sembra che la stanza si scuota e vibri tutta… Il sangue e la materia di molte razze – neri, polinesiani, mongoli delle montagne, nomadi del deserto, levantini poliglotti, indios -, razze non ancora concepite e non ancora nate attraversano il corpo… Migrazioni, viaggi straordinari in deserti e giungle, in montagna (stasi e morte in chiuse valli montane dove le piante spuntano dai genitali, grossi crostacei covano dentro e rompono il guscio del corpo) oltre il Pacifico in una piroga per l’isola di Pasqua…

Una volta A.J. ha prenotato con un anno d’anticipo un tavolo da Chez Robert, dove un gourmet massiccio e glaciale medita sulla cucina più squisita del mondo. Ha uno sguardo così velenoso e sprezzante che molti clienti, sotto quell’occhio vizzo, sono rotolati per terra pisciandosi addosso nel tentativo convulso di ingraziarselo.

Così A.J. arriva con sei indios boliviani che masticano foglie di coca tra una portata e l’altra. E quando Robert, in tutta la sua maestà da gourmet, si avvicina al tavolo, A.J. alza gli occhi e urla: “Ehi, Ragazzo! Portami il ketchup”.

(Alternativa: A.J. tira fuori una bottiglietta di ketchup e annaffia la haute cousine).

Trenta gourmet smettono di masticare di colpo. Roba che si sarebbe sentito afflosciarsi un soufflé. In quanto a Robert, emette un boato rabbioso, come di elefante ferito, corre in cucina e si arma di una mannaia da macellaio… Il Sommelier fa un ringhio mostruoso, la faccia gli diventa di uno strano viola iridescente… Rompe una bottiglia di Champagne Brut… del ventisei… Pierre, il Capocameriere, afferra un coltello per disossare. Tutti e tre si lanciano all’inseguimento di A.J. attraverso il ristorante emettendo urla di rabbia strazianti, disumane… Tavoli ribaltati, vini d’annata e cibi impareggiabili volano per terra. Grida di “Linciatelo!” riecheggiano nell’aria. Un anziano gourmet con gli occhi iniettati di sangue, di un mandrillo impazzito, sta preparando un cappio con un cordone delle tende di velluto rosso. Vedendosi con le spalle al muro e in pericolo imminente di essere sventrato come minimo, A.J. gioca la carta vincente… Rovescia indietro la testa ed emette il richiamo di un porco, al che un centinaio di porci affamati stazionanti poco lontano irrompono nel ristorante e sbafano la haute cousine. Robert si schianta a terra come un grande albero e i porci lo divorano in un boccone: “Poveri bastardi, non conoscono abbastanza la vita per apprezzarla” dice A.J.

Nell Zink – Senza pelle

Gli esseri umani sono soltanto creature che “mangiano e si riproducono?”

Un romanzo di Nell Zink completamente calato nel mondo di oggi, dove, attraverso l’Europa, Tiffany si getta in un turbinio di subculture, ONG ambientaliste, birdwatching e atti di eco-terrorismo, alla ricerca di un obiettivo che dia senso alla sua esistenza.

Scritto con una prosa giovane e divertente, tradotto da Anna Mioni per Minimum fax.

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Gli uccelli erano la sfera intima di Stephen. Con loro non doveva essere fico o spassoso e nemmeno allettante. “Riprodursi e nutrirsi”, così Stephen definiva la loro vita, facendoli somigliare più a dei mangioni erotomani (cioè, a degli esseri umani) che alle orgiastiche e leggiadre creature stagionali che erano in realtà: animali di una tragicità assurda, che fuggivano allarmati dal primo accenno di maltempo, gridavano per mesi di fila per difendere territori grandi come un campo di pallamano, avevano rapporti sessuali brevi e goffi e deponevano una covata di uova dopo l’altra per darle in pasto ai predatori, sceglievano direzioni inesorabilmente sbagliate che li portavano a morire di freddo o di fame, ad annegare, o a farsi catturare dai cacciatori su qualche lago gelato, troppo esausti per muoversi.

 

Per Stephen erano un modello di brama primordiale e insaziabile. Io li vedevo in un altro modo, gli uccelli. Pensavo piuttosto a due anatre, tra le quali vige la fedeltà di coppia. Cosa avrebbero fatto se i cacciatori le avessero intrappolate? Li avrebbero affrontati tenendosi per mano? Ma nemmeno per sogno. Si sarebbero separate, ognuna in una direzione diversa. L’anatra colpita avrebbe usato le ultime forze per guardare il compagno di una vita e quello avrebbe scosse il capo come per dire: “Stai zitta, per favore. Non fare la spia solo perché stai morendo”. E l’amore avrebbe trionfato.

 

Inoltre l’estetica di Stephen non li convinceva per niente. Lui aveva già chiesto più volte a Birke, di progettare campagne con slogan escogitati da lui, come “Idroelettrico: il Moloch satanico dei quartieri alti” o “Fottuto e abbandonato” (secondo lui una descrizione più che appropriata del fiume Reno), riuscendo a rimediare solo le occhiatacce di traverso che i post-punk si beccano sempre dai giovani 2.0 e che significano: “Quanto sei poco professionale”.

 

Prese due noci dalla ciotola sul tavolo e le ruppe una contro l’altra altra con entrambe le mani. Mangiò la noce più debole, poi provò la forza della noce rimasta contro un’altra noce. Glielo avevo visto fare decine di volte. In un primo momento credevo lo facesse per ammazzare il tempo quando c’era silenzio, ma dopo che la stessa noce vinse otto scontri capii.

“La noce più forte è noiosa”, dissi. “Tanto valeva che fosse un sasso”.

“Si illude che lo schiaccianoci la trovi molto attraente”, disse, e prese lo schiaccianoci.

Michael Gold – Ebrei senza soldi

Un romanzo che è un mix tra narrativa, memoir, spaccato storico e politico. Michael Gold racconta la sua infanzia nel Lower East Side di New York, tra emigranti ed ebrei in cerca di una nuova vita e che si sono ritrovati nello sfruttamento, nel degrado e nella disoccupazione. Rapidi, lucidi e taglienti sketch che dipingono la vita nei primi del ‘900 tra bande, prostitute, sfruttatori e famiglie.

Tradotto da Alessandra Scalero per Castevecchi.

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Non potrò mai dimenticare quella strada dell’East Side dove ho vissuto da ragazzo; distante un isolato dalla famigerata Bowery, era un autentico canyon di caseggiati guarniti di scale di sicurezza, lenzuola e facce.

Facce, facce, alle finestre dei caseggiati. Che inesauribile, immensa miniera di emozioni, la strada! Non s’addormentava mai. Ruggiva come un mare in tempesta. Esplodeva come una girandola di fuochi artificiali.

La gente si urtava, questionava per la strada. Eserciti di venditori ambulanti spingevano urlando i loro carretti. Donne strillavano, cani abbaiavano e si accoppiavano in mezzo alla strada. Bimbi piangevano.

Un pappagallo bestemmiava. Marmocchi cenciosi giocavano fin tra le zampe dei cavalli. Grasse massaie si prendevano per i capelli, da una porta all’altra. Un mendicante cantava.

Sulla panca davanti alla scuderia, i carrettieri si riposavano, sghignazzando, mandando giù interi boccali di birra.

Magnaccia, giocatori e ubriaconi sfaccendati; politicanti, pugili in maglietta; buontemponi striminziti, allampanati facchini del porto in tuta. L’interminabile parata della vita dell’East Side sfilava attraverso le porti di vimini del bar di Jack Wolf. La sua capra se ne stava distesa sul marciapiede, masticando una copia della “Police Gazette” con aria sognante.

Le mamme dell’East Side dagli eroici seni spingevano spettegolando le carrozzine coi bambini. I tram a cavallo passavano strepitando. Un calderaio picchiava sul rame. I robivecchi scampanellavano. Turbini di polvere e di giornali. Le prostitute ridevano stridule. Un profeta passava – un robivecchi ebreo dalla lunga barba candida. Monelli ballavano intorno all’organetto. Due vagabondi sonnacchiosi si tenevano su, spalla spalla.

Agitazione, sporcizia, botte, confusione. La voce della mia strada si levava come lo scoppio di una gran carnevalata o di una catastrofe. Quel rumore mi riempiva le orecchie. Lo udivo persino in sogno; ancora oggi ne sento l’eco.

Svegliandomi, al mattino, non ero mai troppo sorpreso se mi trovavo accanto, nel letto, una nuova famiglia di emigranti, insaccati in camice da notte di foggia straniera.

Perlopiù apparivano pallidi, esauriti. Riempivano l’aria dell’odore del disinfettante di Ellis Island. Un fetore che mi nauseava peggio dell’olio di ricino.

In giro per la stanza erano sparsi loro averi: le sacche da viaggio di grossa tela a righe, e i monumentali fagotti, dai quali si intravedevano materassi di piuma, pentole e casseruole, preziosa tela tessuta mano, tovaglie ricamate e curiose giubbe spesse come coperte.

Non c’era casa nell’East Side in cui quei disgraziati non trovassero asilo come nella nostra. L’ospitalità era una cosa naturale, che non si discuteva nemmeno, finché la nuova famiglia non avesse trovato un alloggio conveniente. I nuovi arrivati sedevano a tavola con noi e ci assediavano di interminabili domande sull’America. Riferivano le cattive notizie dal vecchio mondo (erano sempre cattive, le notizie). Sin dal primo mattino, si preoccupavano di come trovare lavoro. Noi insegnamo loro, per prima cosa, a non soffiare sul gas per spegnerlo (c’era anche chi non l’aveva mai visto prima). Camminavano su e giù per le strade del nostro East Side e guardavano i poliziotti e i bar, e non la finivano di meravigliarsi di tutto. Facevano un’infinità di scoperte; chiacchieravano e si comportavano come degli stupidi.

Salivamo al terrazzo, sui tetti; portavamo con noi bottiglie di birra e panini imbottiti di salame e mio padre raccontava, mentre si mangiava e si beveva.

La luna e le stelle si accendevano, nel nero cielo che sovrastava New York. La faccia di mio padre splendeva misteriosa alla luce delle stelle. Egli fumava un sigaro. Dietro le sue spalle, come intagliato nel carbone, si ergeva un fantastico paesaggio di comignoli e grattacieli.

Parlava, e la sua voce era bassa, sicura, magnetica, di un maestro. Egli conosceva il suo potere di suggestione e quando raccontava, lo faceva con una dignità singolare. Ma lassù, sui tetti, coadiuvato dal fascino della luna e delle stelle, il suo incanto cresceva.

[…] e oggi ancora ricordo quelle ore sulla terrazza della nostra casa, sotto il cielo notturno di New York. I grattacieli si ergevano verso la luna, costellati di lunghe luci rosse e bianche come navi gigantesche. Una brezza tropicale soffiava dal mare. E dalla strada saliva il frastuono dell’East Side.

Estate. A fatica si respirava. Tutti i giorni di sole dardeggiava i suoi raggi micidiali. Di notte, vapori si levavano dalle pietre del nostro ghetto come da un bagno turco. Mai un istante di sollievo da quel peso che ci gravava sulla nuca e sul cranio. Tutti stavano male, e i dottori avevano il loro da fare.

In casa degli ebrei, i bimbi piangevano, morivano, e prosperavano le mosche. Tutti erano irritati; l’eco dei litigi saliva super gli sfiatatoi. Se mi svegliavo, nel cuore della notte, ero certo di sentir la casa intera brontolare e rivoltorarsi nelle camere da letto. La gente andava in cerca di un po’ di sonno come di un tesoro. Tutta la notte, spettri dagli occhi infossati vagavano per le strade. Famiglie intere dormivano nei docs, nei giardini pubblici, sui tetti. Il mondo era una fornace.

Nell’East Side, la gente compra dal droghiere un pizzico per volta; tre centesimi di zucchero, cinque di burro, tutto quanto a penny. Il buon pane nero ebraico che sa di mietitura viene tagliato in dodici parti, e si vende a un penny la fetta. Ma quell’inverno, anche i penny scarseggiavano. C’era stato panico a Wall Street; migliaia di persone si trovavano senza lavoro; c’erano scioperi, suicidi, assalti ai negozi di commestibili. Le prostitute erravano per la nostra strada come tante lupe; mai c’era stata tanta rivalità tra di loro.

La vita diventava gelida. Il sole era pallido nel cielo di un grigio mortale. Le strade erano ingombre di neve e di fango. Gli sfratti si contavano a centinaia. La fanghiglia mi penetrava attraverso le scarpe sdrucite. Il vento mi schiaffeggiava il viso; ed ecco, davanti un caseggiato, una catasta di suppellettili: tavoli, sedie, una tinozza piena di stoviglie e coperte da letto, una scopa, una credenza, una lampada. La neve li ricopriva poca poco; e cadeva, quella stessa neve, su un piccolo ebreo con la moglie e i tre bambini, rannicchiati in un gruppo dolente, accanto alle loro poche cose. Avevano messo un piattino su uno dei tavoli. Una vecchia con una sporta borbottava una preghiera nel passare, e lasciava cadere un penny nel piattino. Altri facevano la stessa cosa. Ogni volta, gli sfrattati abbassavano gli occhi vergognosi. Non erano mendicanti, erano persone “perbene”. Ma quando nel piattino fossero caduti abbastanza penny, avrebbero forse potuto avere tanto denaro per prendere in affitto una nuova casa. Ed era, quella, la loro ultima speranza.

Inverno. Abiti pesanti, scarpe forti, carbone, cibo…quante cose costose e indispensabili!

Inverno. Un mendicante cieco nel cortile, e la sua faccia volta al cielo nervoso! Un mendicante che canta il volgare turpiloquio del music hall yiddish. Ha una voce rauca, è paziente, vecchio. La gente gli getta qualche penny dalle finestre, pezzi di pane avvolti in un giornale.

Inverno. Bambini, vecchi, donne s’accapigliano come cani affamati attorno a una casa in costruzione, dove distribuiscono del legname fradicio. La magra vecchietta ebrea che trascina a stento una slitta da bambini carica di legna incespica  e cade; raddrizza le sue vecchie ossa, si asciuga il naso nello scialle e riprende a tirare la corda…

Inverno. I vagabondi che dormono in file sulla segatura del pavimento, nei bar, sembrano pesci morti. Mezzanotte suonata da tempo. In un seminterrato, da uno straccivendolo, cinque vecchi ebrei fanno la cernita degli indumenti, al lume di una lampada. Uno mangia un sandwich.

Inverno. In una casa d’irlandesi, in cucina, c’è un cadaverino avvolto in una tovaglia, sul tavolo. Padre madre siedono uno vicino all’altra, litigano, e ogni tanto s’attaccano alla bottiglia di whisky.

Inverno. Una ragazza italiana giace febbricitante in una stanza. Ha gli occhi gonfi; un fazzoletto bagnato le cinge la fronte. Ma deve guadagnarsi da vivere. Seduta sul letto, lavora fiori artificiali  -gigli, rose e ortensie.

Inverno. Troppi cadaveri aspettano la sepoltura.

Il municipio è costretto a seppellirli a gruppi di tre “per risparmiare tempo e spazio”, dicono i giornali.

Inverno. Battaglia a palle di neve. Prendiamo di mira grassi signori dignitosi in bombetta, Per il gusto di vederli andare su tutte le furie. Facciamo le scivolate; innalziamo falò nella strada, per far arrostire le patate, finché non viene il poliziotto che ci caccia via e spegne il fuoco…