William S. Burroughs – Pasto nudo

Uno scrittore può scrivere soltanto di una cosa: di quello che c’è davanti ai suoi sensi al momento di scrivere… Sono uno strumento di registrazione… Non presumo di imporre una “storia”, una “trama”, una “continuità”… Finché riesco a registrare direttamentecerte aree del processo psichico posso avere funzioni limitate… Il mio obiettivo non è quello di intrattenere…

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Riattraversiamo Lake Charles e la distesa desolata di slot-machine, confine meridionale del Texas, sceriffi ammazza-negri ci lanciano appena un’occhiata e controllano i documenti della macchina. Quando attraversi il confine messicano qualcosa ti cade di dosso e di colpo il paesaggio ti colpisce allo stomaco perché non c’è niente tra te e lui, solo deserto, montagne e avvoltoi; macchioline vorticanti e altre così vicine che ti par di sentire le ali tagliare l’aria (un suono di guscio secco), e quando adocchiano qualcosa si riversano giù dal cielo azzurro, lo sconvolgente, sanguinante cielo azzurro del Messico, piombano giù in un imbuto nero… Abbiamo viaggiato tutta la notte, all’alba siamo arrivati in un posto caldo, pieno di foschia, di cani che abbaiavano e del suono di acqua che scorreva.

 

Carl andò a trovare Joselito in una grande camera linda piena di luce, con bagno privato e balcone di cemento. E niente di cui parlare in quella stanza fredda, con i giacinti che crescevano in un vaso giallo, il cielo azzurro porcellana e nuvole in continuo movimento, e guizzi di paura che si accendevano e spegnevano nei suoi occhi. Quando sorrideva, la paura volava via in frammenti di luce, si appostava enigmatica negli angoli alti e freschi della camera. E cosa potevo dire nel sentire la morte intorno a me e con le piccole immagine spezzate che affiorano nella mente prima del sonno?

 

Una guardia in uniforme di pelle umana, giacca nera di antilope con bottoni di denti gialli cariati, una camicia elastica di rame indiano brunito, pantaloni sportivi di adolescente-con-tintarella-da-sole-nordico, sandali di pianta del piede callosa di contadino malese, una sciarpa marrone cenere annodata e infilata nella camicia. (Il marrone cenere è simile al grigiosottola pelle bruna. Talvolta lo si trova nella razza mista, nei mulatti, la mistura non viene via e i colori si separano come olio sull’acqua…).

La Guardia è un figurino, dato che non ha niente da fare e spende tutta la paga per comprarsi bei vestiti; si cambia tre volte al giorno davanti a un enorme specchio che ingrandisce. Ha una bella faccia liscia e latina, con baffi simili a un tratto di penna, piccoli occhi neri, vuoti e avidi, occhi da insetto senza sogni.

Quando arrivo alla frontiera la Guardia esce di corsa dalla sua casita, con uno specchio dalla cornice di legno appesa al collo. Cerca di toglierselo… Non è mai successo prima che qualcuno sia arrivato fino alla frontiera. La Guardia si è ferita alla laringe con la cornice dello specchio nel tentativo di toglierlo… Ha perso la voce… Apre la bocca, dentro si vede la lingua saltellare di qua e di là. La giovane faccia inespressiva e liscia e la bocca aperta con la lingua che si muove sono incredibilmente spaventose. La Guardia alza la mano. L’intero corpo sussulta in negazione convulsa. Mi avvicino e sgancio la catena che sbarra la strada. Quella cade sul pietrisco con clangore metallico. Ci passo sopra. La Guardia se ne sta lì nella foschia e mi guarda mentre mi allontano. Poi rimettere la catena al suo posto, rientra nella casitae comincia a spuntarsi i baffi.

 

Appunti presi sotto l’effetto dello yagé:

Le immagini cadono lente e silenziose come neve… Serenità… Cadono tutte le difese… Ogni cosa è libera di entrare o uscire… La paura è semplicemente impossibile… Una bellissima sostanza azzurra penetra in me… Vedo un arcaico volto sorridente simile a una maschera dei Mari del Sud… Il volto è di un azzurro violetto screziato d’oro…

La stanza ha l’aspetto di un bordello levantino con pareti blu e lampade rosse guarnite di nappine… Sento che mi sto trasformando in una negra, il nero sta silenziosamente invadendo la mia carne… Convulsioni di lussuria… Le mie gambe si arrotondano, assumono una consistenza polinesiana… Ogni cosa si muove di una vita furtiva, fremente… La stanza è mediorientale, negra, dei Mari del Sud, di qualche località familiare che non riesco a localizzare… Lo yagé è un viaggio spazio-temporale… Sembra che la stanza si scuota e vibri tutta… Il sangue e la materia di molte razze – neri, polinesiani, mongoli delle montagne, nomadi del deserto, levantini poliglotti, indios -, razze non ancora concepite e non ancora nate attraversano il corpo… Migrazioni, viaggi straordinari in deserti e giungle, in montagna (stasi e morte in chiuse valli montane dove le piante spuntano dai genitali, grossi crostacei covano dentro e rompono il guscio del corpo) oltre il Pacifico in una piroga per l’isola di Pasqua…

Una volta A.J. ha prenotato con un anno d’anticipo un tavolo da Chez Robert, dove un gourmet massiccio e glaciale medita sulla cucina più squisita del mondo. Ha uno sguardo così velenoso e sprezzante che molti clienti, sotto quell’occhio vizzo, sono rotolati per terra pisciandosi addosso nel tentativo convulso di ingraziarselo.

Così A.J. arriva con sei indios boliviani che masticano foglie di coca tra una portata e l’altra. E quando Robert, in tutta la sua maestà da gourmet, si avvicina al tavolo, A.J. alza gli occhi e urla: “Ehi, Ragazzo! Portami il ketchup”.

(Alternativa: A.J. tira fuori una bottiglietta di ketchup e annaffia la haute cousine).

Trenta gourmet smettono di masticare di colpo. Roba che si sarebbe sentito afflosciarsi un soufflé. In quanto a Robert, emette un boato rabbioso, come di elefante ferito, corre in cucina e si arma di una mannaia da macellaio… Il Sommelier fa un ringhio mostruoso, la faccia gli diventa di uno strano viola iridescente… Rompe una bottiglia di Champagne Brut… del ventisei… Pierre, il Capocameriere, afferra un coltello per disossare. Tutti e tre si lanciano all’inseguimento di A.J. attraverso il ristorante emettendo urla di rabbia strazianti, disumane… Tavoli ribaltati, vini d’annata e cibi impareggiabili volano per terra. Grida di “Linciatelo!” riecheggiano nell’aria. Un anziano gourmet con gli occhi iniettati di sangue, di un mandrillo impazzito, sta preparando un cappio con un cordone delle tende di velluto rosso. Vedendosi con le spalle al muro e in pericolo imminente di essere sventrato come minimo, A.J. gioca la carta vincente… Rovescia indietro la testa ed emette il richiamo di un porco, al che un centinaio di porci affamati stazionanti poco lontano irrompono nel ristorante e sbafano la haute cousine. Robert si schianta a terra come un grande albero e i porci lo divorano in un boccone: “Poveri bastardi, non conoscono abbastanza la vita per apprezzarla” dice A.J.

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