James Simon Kunen – Fragole e sangue.

America 1968, il giovane diciannovenne Kunen, studente della Columbia University, si ritrova catapultato all’improvviso nella protesta studentesca e decide di tenere un diario sull’occupazione dell’università. Idealista, alterna riflessioni importanti e coraggiose a divertenti digressioni personali, in un’America attraversata da nuovi conflitti come la guerra del Vietnam, gli omicidi di Bob Kennedy e Martin Luther King, la crisi dei democratici che aprono alla contestazione giovanile e ai movimenti sociali.

Edito da SUR con la traduzione di Anna Rusconi e Carla Palmieri, il “diario di uno studente rivoluzionario” risulta ancora attualissimo.

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Dalla bella intruduzione di Bruno Cartosio

[…]Kunen è un radical dubbioso e arrabbiato perché “siamo in grado di vedere una serie di cose contro cui è necessario lottare, e lottiamo. Abbiamo lottato, stiamo lottando, lotteremo”.

[…]Nel diario sembra mantenere un’apparente distacco, sempre ironico e autoironico. “Non sono un leader…i leader da soli non possono assaltare e occupare edifici. Per certe azioni occorrono i grandi numeri. Io sono un numero. Quella che segue è la cronaca di una singola unità rivoluzionaria”.

Effettivamente la sua lettura dei fatti è personale, tanti giudizi in piccolo. In fondo quando sono visti nel loro farsi dal di dentro i grandi eventi non appaiono nella loro grandezza ma sempre solo come successione di piccole esperienze personali. Ci sono i principi, però, che costituiscono la spina dorsale della personalità e la bussola su cui orientare sia i comportamenti, sia i giudizi in grande.

Alcuni estratti

[…]Ho appena sentito una pessima pubblicità delle giacche alla Nehru. Appena trovi uno stile di vita buono, o anche solo una cosa che ti piace, quelli se la pigliano e la vendono senza avere la minima idea di quanto valga, svalutandola completamente. Guardi all’Oriente,  e ti ritrovi con una giacca da guru indiano di Gimbels.

 

[…]Non mi piacciono il Texas, quelli che vanno allo zoo per fare gli alternativi, le nevicatine che si riducono subito in poltiglia, le giornate corte d’inverno, il termine “consumatori”, i martelli pneumatici proprio sotto la finestra e i soldatini.

E il razzismo, la povertà e la guerra. Contro questi ultimi tre sto cercando di fare qualcosa.

 

[…]I bambini si picchiano, ma arrivati a sedici anni, per quanto adolescenti irresponsabili, capiscono che la forza non serve a dimostrare un bel niente. I ragazzi più grandi difficilmente ricorrono alla forza. Solo quando lo fanno i loro paesi. Perciò sono proprio le nazioni a comportarsi in modo incredibilmente infantile. Le guerre sono un’idiozia. Un’assurdità. Eppure sono reali, presenti, una costante: continuano a esistere. Perché non la piantano? Perché le nazioni non ci danno un taglio, punto e basta? Noi non vogliamo guerre.

 

[…]Non è singolare che nessuno finisca mai in galera per aver scatenato una guerra, tantomeno per averla invocata? Invece le galere sono piene di gente che vuole la pace. Non uccidere è da criminali. Basta chiedere che ti lascino in pace, e ti spediscono difilato in galera. Esercitare il diritto di vivere significa violare la legge. Lo trovo singolare, davvero.

 

[…]Ovviamente non ho nessuna voglia di andare a combattere in Vietnam, ma non ho nemmeno voglia di combattere contro la leva, contro la legge o contro alcunché. Sono un civile di diciannove anni, e sono stanco di combattere.

Tuttavia prima o poi potrei cominciare a farlo per davvero, per non doverlo fare mai più.

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